Rappresentanza e sovranità nell’UE della moneta
La prima volta che mi hanno chiesto di scrivere un articolo per questo giornale è stato in occasione degli attacchi terroristici a Charlie Hebdo e altri obiettivi sul suolo francese. Il caso ha voluto che anche in occasione della mia seconda collaborazione la Francia fosse colpita da atti ancora più efferati della stessa matrice.
Nel precedente articolo avevo voluto proporre alcuni spunti di riflessione alternativi al racconto classico dello “scontro di civiltà” che già tanti altri stavano affrontando ben più approfonditamente di quello che avrei potuto fare io in poche righe. Uno degli aspetti che avevo toccato era la mancanza di una risposta davvero europea: oggi come allora, si sente la mancanza di una politica estera e di difesa comune.
Ma come mai l’Europa non riesce a parlare con una sola voce? Come mai gli Stati europei tanto vicini quando si parla di rigore e regole economiche non hanno la forza e la capacità di prendere insieme le decisioni che riguardano intelligence, eserciti e forze di polizia?
Per capirlo occorre partire dal principio.
L’Europa è stata fin dall’inizio un’idea di sparuti visionari su cui ben pochi avrebbero scommesso: nessun Paese nella storia dell’uomo aveva mai messo in comune con altri così tanti aspetti del proprio sistema istituzionale come stiamo faticosamente tentando di fare. Per lo meno, mai pacificamente. Persino negli Stati Uniti il processo di integrazione è stato violento, con la Guerra di Secessione che ha visto cadere centinaia di migliaia di uomini. Alcuni Paesi europei decisero invece di tentare di fare lo stesso percorso senza ricorrere alla forza: unire in maniera sempre più stretta più di 500 milioni di persone che sono sempre state divise era ed è il più grande esperimento democratico mai tentato dall’uomo.
Chiaramente il percorso non poteva essere breve, nè semplice. Le resistenze fin dall’inizio furono tantissime e le difficoltà enormi: dalle differenze linguistiche alle diffidenze fra i popoli inasprite da due sanguinose guerre mondiali, tutto contribuiva a ostacolare il processo di avvicinamento. Fin dall’inizio fu chiaro che il terreno che più facilmente di altri poteva costituire la base comune su cui costruire il futuro era l’economia. Tutti i Paesi coinvolti avevano scelto il blocco occidentale e l’economia di mercato in contrapposizione a quella socialista che si era sviluppata oltre cortina. Le condizioni erano favorevoli: le regole di mercato erano già condivise, tutti i Paesi percepivano l’interesse economico di una maggiore integrazione dei propri mercati e, cosa non secondaria, gli Stati Uniti spingevano fortemente per la creazione di un grande bacino per la vendita delle loro merci e per legare indissolubilmente fra loro gli alleati della coalizione anti-sovietica.
Non è assolutamente un caso che il più antico antenato dell’attuale UE fosse la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Francia e Germania, da sempre nemici storici, a soli sei anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, mettevano in comune i materiali necessari per produrre armamenti, ma anche due delle principali materie prime dell’industria. Si cementava la fiducia reciproca impedendo un eventuale riarmo segreto e al contempo mettevano in comune le basi per la rinascita economica.
Da allora e per molti anni il terreno economico è stato l’unico su cui gli Stati potessero accordarsi poiché i governi erano impegnati a costruire la loro stessa legittimità e quella dei neonati sistemi istituzionali (la Costituzone Italiana è entrata in vigore nel 1947, solamente quattro anni prima della fondazione della CECA): non potevano permettersi di perdere sovranità proprio quando dovevano dimostrare la loro utilità. Al contempo gli USA non avrebbero visto di buon occhio collaborazioni militari e di intelligence concorrenti alla NATO. Le istituzioni economiche hanno continuato invece a svilupparsi e rafforzarsi, con i temi della CEE (Comunità Economica Europea) che entrava nel dibattito pubblico anche in Italia.
E’ importante capire che il motivo dello squilibrio odierno verso l’economia e a sfavore dell’unione politica ha delle precise ragioni storiche: se si volevano unire i Paesi Europei, quella era l’unica strada percorribile.
Con la creazione della moneta unica, in anni recenti si è avuta una ulteriore forte accellerazione dell’unione economica. Per poter farla progredire si sono create istituzioni come la Banca Centrale Europea e l’Ecofin ha assunto un ruolo sempre più importante. Per calcolo economico gli Stati erano disposti a sottostare alle decisioni di una Banca Europea, ma non a quelle di un Parlamento Europeo che avrebbe diminuito l’iportanza dei politici nazionali.
Dati questi presupposti, è stato assolutamente naturale che con lo scoppio della crisi economica globale le uniche risposte potessero arrivare dalle istituzioni come la Banca Centrale, dato che erano le uniche con qualche potere concreto. La mancanza di una risposta politica unitaria di fronte alle crisi di carattere internazionale non è una critica che si possa muovere all’Europa, per il semplice fatto che l’Europa non è ancora un’unione politica.
Questo è il nocciolo del problema. Le istituzioni economiche ed i mercati non sono, per loro natura, democratici, nel senso che non vengono eletti direttamente, non hanno alcun mandato politico e non rispondono agli elettori per le loro scelte. E’ di tutta evidenza come istituzioni come queste non possano permettersi di dare risposte politiche e tanto meno proporre misure di difesa comune, poiché non è fra i compiti che sono stati loro assegnati.
Se questa situazione era accettabile fino ad una decina di anni fa, ormai è chiaro che oggi non è più sostenibile. L’UE aveva buoni motivi per svilupparsi in questo modo, ma ci si è spinti troppo oltre: occorre correggere lo squilibrio fra unione economica ed unione politica. Non si possono più rimandare scelte fondamentali quali l’unione fiscale e la riforma dei poteri del Parlamento Europeo, strumenti necessari e fondamentali per avere i mezzi e la legittimità per rispondere alle sfide globali di oggi, non solo quelle del terrorismo, ma anche quelle dell’immigrazione.
I cittadini che votano i loro rappresentanti in Europa devono sapere che con la loro azione daranno una precisa linea politica e che essa inciderà in maniera concreta sulla politica economica dell’UE. Anche dal punto di vista economico, se la Banca Centrale e le altre istituzioni finanziarie riceveranno un mandato democratico, allora saranno legittimate a chiedere sforzi e cambiamenti ai governi nazionali e presteranno meno il fianco alle critiche degli euroscettici.
L’elezione di un Parlamento e di organismi europei davvero incisivi, porterbbe alla creazione di partiti davvero europei molto differenti dalla banale somma di partiti nazionali odierna. Questo darebbe ulteriore impulso ad una vera opinione pubblica europea, favorendo lo scambio culturale fra Paesi e creando quel cirolo virtuoso indispensabile perché l’Unione possa crescere. In secondo luogo si potrebbe ottenere quella accountability che al momento tanto manca: gli elettori europei potrebbero sapere esattamente di chi sono meriti e colpe della situazione e potrebbero votare di conseguenza, favorendo l’alternanza e spronando i politici a fare sempre meglio per prevalere nelle elezioni successive. Esattamente ciò che accade in una democrazia matura.
L’auspicio è quindi che i governi nazionali capiscano che tragedie come queste devono essere uno sprone per rafforzare l’Unione, non per inseguire facili vendette, soluzioni semplicistiche o fragili alleanze temporanee basate su nemici comuni solo sulla carta. Un vero statista è colui che pensa con un’orizzonte più ampio di quello delle prossime elezioni, capendo che non c’è alternativa a lungo termine all’unione politica se si vuole dare all’Europa un peso sullo scacchiere internazionale.
Questo articolo è stato pubblicato su “Molinella a Confronto” del Dicembre 2015, nella sezione Politiche Internazionali.
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